mercoledì 6 maggio 2020

Microracconto di una quarantena col neo

Restate a casa. Lavorate in smart working. Si, certo, molto work e poco smart. Usate l'amuchina per disinfettarvi, la mascherina fatta in casa con la carta forno e i guanti usa e getta, non per strada possibilmente. Leggete, guardate una serie tv, videochiamatevi, skypatevi e partecipate alle feste di compleanno su zoom che sono una figata, se vi piace la realtà virtuale. Seguite tutte le indicazioni, soprattutto quelle del governatore della regione Campania, che si sta assicurando le prossime elezioni a suon di lanciafiamme e anatemi contro i portaseccia e i cinghialoni. Ah, anche contro la setta del godimento perpetuo. Inutile cercarla, non esiste. Altrimenti saremmo già tutti arruolati.  Stampatevi l'autocertificazione (quale: la uno, la due o la treeee?), non potete fare jogging, non potete fare la spesa in due per famiglia, state almeno a un metro di distanza, cantate fuori dai balconi canzoni di merda che ci sentiamo tutti più vicini. Magari, qualche volte scegliete una canzone decente e m'affaccio pure io. Ah, no io non ho il balcone. Ma va bene anche la finestra. Si, ma poi entrano le zanzare che a quelle manco il coronavirus le ammazza. E poi il sabato la pizza. M'arraccumanno. Alle 18 escono i dati, alle 23:20 c'è la diretta del Premier, chiamatemi solo quando Conte dirà che la luce ha vinto sulle tenebre, alle 16 il webinar, alle 2 la creatura ancora non dorme, vabbè tanto domani non ho la sveglia che suona, eh ma prima o poi suonerà e come faremo? Non ci fasciamo la testa, già è difficile così!

Il tema appena svolto era: riassumete in un flusso di pensieri gli ultimi due mesi trascorsi in casa.




Io,  il mio lockdown lo vivo con il mio compagno e la creatura che ha appena compiuto dieci mesi. Una creatura che ha deciso in questi ultimi due mesi di esplorare ogni angolo della casa. Retro di divani che nascondono di tutto, infatti grazie a lei abbiamo ritrovato "cose che voi umani", da mensole di librerie che sono diventate presto pareti da scalare che manco Messner, granelli di polvere impercettibili che su un pavimento bianco per lei diventano appetitosi bocconcini da assaporare. Negli ultimi due mesi la creatura ha deciso di mettersi in piedi.  Non cammina, chiariamo, non voglio essere una di quelle mamme che dicono che i loro figli hanno fatto tutto prima degli altri! Certo, la creatura ha imparato a salutare, ad applaudire, le pernacchie li fa da quando ha 4 mesi e dice "Bau" se sente la parola cane, ma dubito che per ora le daranno il Nobel. Per ora, ho detto.  In tutti i casi, cerca di mangiare di tutto, piange quando ha sonno, ma se la metti nella culla piange perché vuole alzarsi, lascia sempre l'ultimo cucchiaino di pastina e appena ti avvicini al fasciatoio diventa Raffaella Carrà in "Com'è bello far l'amore da Trieste in giù" . Che poi quando la imitiamo lei ride un sacco.  Insomma, è una bimba normale. Siamo noi a non essere più normali. Perché? Provate voi a lavorare in videochiamate continue inseguendo  non una libellula in un prato, magari, ma un diavoletto della Tasmania che aggrappandosi a cose improbabili e altamente instabili, come plaid che penzolano dal divano  o strofinacci appesi ad una sedia, si muove con disinvoltura tra mille e mille pericoli mortali per lei e, a volte, anche per noi con tutti i microinfarti che ci stiamo prendendo.

Lei resta impassibile. Ci guarda felice, sorride. A noi passa tutto quando lei sorride. Ma non abbiamo il tempo di godercela perché lei è già in direzione scopa e paletta mentre aspira tutto ciò che si ritrova lungo il tragitto.

Insomma, sia chiaro, nulla che per fortuna un buon guinzaglio non possa fermare!

p.s. si avvisano i lettori che durante la quarantena nessuna bambina col neo è stata maltrattata. Per ora.


mercoledì 26 febbraio 2020

Il miracolo dell'oro giallo

Due mesi. Non due ore,  due giorni o due settimane. Ma, due mesi.
De mesi e due impegnative del pediatra per riuscire a prendere le urine della creatura. 
La prima volta l'ho visto fare in ospedale. "Signora, fatela mangiare che così subito dopo le mettiamo la bustina e raccogliamo la pipì". E così avvenne esattamente. Io le diedi il latte, poi bustina e pipì raccolta. Facile, no?!

Si, certo. 

Ora, non so quante e quanti di voi abbiano avuto quest'esperienza, e non so voi come l'abbiate vissuta, ma per noi è stata prima un'attesa, poi uno stress, poi è arrivata la disperazione, poi la speranza e, infine, il giubilo tendente al miracolo, manco fosse la liquefazione del sangue di San Gennaro. 

Ho cominciato con spavalderia. Facile: lei mangia, io metto bustina, lei fa pipì e io la porto ad analizzare. 
Chiaramente, molto presto la catena si è leggermente modificata. E allora: lei mangia, io metto bustina, attendo venti minuti in cui lei mi guarda sorniona, passano altri venti minuti in cui lei sbadiglia, si gira sul fianco per dormire, comincia ad agitarsi e mi guarda quasi incazzata, non può tenere la bustina in eterno e quindi gliela tolgo. A quel punto la fa. La cazzimma l'ha presa dal papà. 
E allora via col secondo tentativo il giorno dopo. Lei mangia, io metto bustina, attendo venti minuti guardando in rete cosa bisogna fare e allora via col massaggino dietro la schiena, il solletico sotto i piedi, l'acqua sul pancino, le faccio bere un po' d'acqua, faccio "pssspssspss" e apro la fontana con il risultato che la pipì la faccio io, ovviamente. Lei ride. Mi guarda e ride e poi si addormenta. 



Al quarto tentativo passo dallo stress alla disperazione, mentre al quinto diventa quasi una barzelletta. Al sesto tentativo la barzelletta divento io perché in preda ad una crisi mistica sogno di vedere abbastanza pipì nella bustina  e corro in laboratorio. Erano due gocce, ma veramente due gocce. Non sto scherzando. Il tizio alla reception mi ha guardato e ha detto: "E che è? L'acqua 'e Lourdes?". In quel momento sono ritornata in me, ho guardato la bustina e sono scoppiata a ridere. Ma una risata isterica. Fosse stato carnevale gli avrei detto che era uno scherzo, ma eravamo troppo lontani per essere credibile. E allora sono tornata disperata davanti a lui implorandolo di darmi qualche escamotage, qualche dritta, qualche vecchio rimedio della nonna. Niente. Unico consiglio: "Dovete avere pazienza e aspettare".

Ebbene, io ho aspettato. Ho aspettato e alla fine all'ottavo tentativo e alla seconda impegnativa la vedo. E' stata un dono. Il primo vero regalo di mia figlia, consapevole, voluto, a quel punto inaspettato, senza solletico sotto i piedi, senza massaggino lungo la schiena, gratuito e spontaneo. Ed è stato meraviglioso. 

Entro baldanzosa in laboratorio, "We are the Champions" dei Queen suona in sottofondo, la sento limpidamente,  metto l'impegnativa e il pacchetto con l'oro giallo sul bancone. Fiera. Sorridente. Manco fosse amuchina ai tempi del coronavirus. L'impiegato mi guarda, è chiaro che vuole sapere alla fine come abbia fatto, con quale metodo astruso, ma decido di tenere per me l'inesistente segreto, con un alone di mistero che da mamma col neo mi fa sentire per qualche secondo una mamma superfiga. Poi ricordo a me stessa che ero all'ottavo tentativo, due mesi e due impegnative. E torno umile. 
Ma il sorriso è rimasto.