mercoledì 26 febbraio 2020

Il miracolo dell'oro giallo

Due mesi. Non due ore,  due giorni o due settimane. Ma, due mesi.
De mesi e due impegnative del pediatra per riuscire a prendere le urine della creatura. 
La prima volta l'ho visto fare in ospedale. "Signora, fatela mangiare che così subito dopo le mettiamo la bustina e raccogliamo la pipì". E così avvenne esattamente. Io le diedi il latte, poi bustina e pipì raccolta. Facile, no?!

Si, certo. 

Ora, non so quante e quanti di voi abbiano avuto quest'esperienza, e non so voi come l'abbiate vissuta, ma per noi è stata prima un'attesa, poi uno stress, poi è arrivata la disperazione, poi la speranza e, infine, il giubilo tendente al miracolo, manco fosse la liquefazione del sangue di San Gennaro. 

Ho cominciato con spavalderia. Facile: lei mangia, io metto bustina, lei fa pipì e io la porto ad analizzare. 
Chiaramente, molto presto la catena si è leggermente modificata. E allora: lei mangia, io metto bustina, attendo venti minuti in cui lei mi guarda sorniona, passano altri venti minuti in cui lei sbadiglia, si gira sul fianco per dormire, comincia ad agitarsi e mi guarda quasi incazzata, non può tenere la bustina in eterno e quindi gliela tolgo. A quel punto la fa. La cazzimma l'ha presa dal papà. 
E allora via col secondo tentativo il giorno dopo. Lei mangia, io metto bustina, attendo venti minuti guardando in rete cosa bisogna fare e allora via col massaggino dietro la schiena, il solletico sotto i piedi, l'acqua sul pancino, le faccio bere un po' d'acqua, faccio "pssspssspss" e apro la fontana con il risultato che la pipì la faccio io, ovviamente. Lei ride. Mi guarda e ride e poi si addormenta. 



Al quarto tentativo passo dallo stress alla disperazione, mentre al quinto diventa quasi una barzelletta. Al sesto tentativo la barzelletta divento io perché in preda ad una crisi mistica sogno di vedere abbastanza pipì nella bustina  e corro in laboratorio. Erano due gocce, ma veramente due gocce. Non sto scherzando. Il tizio alla reception mi ha guardato e ha detto: "E che è? L'acqua 'e Lourdes?". In quel momento sono ritornata in me, ho guardato la bustina e sono scoppiata a ridere. Ma una risata isterica. Fosse stato carnevale gli avrei detto che era uno scherzo, ma eravamo troppo lontani per essere credibile. E allora sono tornata disperata davanti a lui implorandolo di darmi qualche escamotage, qualche dritta, qualche vecchio rimedio della nonna. Niente. Unico consiglio: "Dovete avere pazienza e aspettare".

Ebbene, io ho aspettato. Ho aspettato e alla fine all'ottavo tentativo e alla seconda impegnativa la vedo. E' stata un dono. Il primo vero regalo di mia figlia, consapevole, voluto, a quel punto inaspettato, senza solletico sotto i piedi, senza massaggino lungo la schiena, gratuito e spontaneo. Ed è stato meraviglioso. 

Entro baldanzosa in laboratorio, "We are the Champions" dei Queen suona in sottofondo, la sento limpidamente,  metto l'impegnativa e il pacchetto con l'oro giallo sul bancone. Fiera. Sorridente. Manco fosse amuchina ai tempi del coronavirus. L'impiegato mi guarda, è chiaro che vuole sapere alla fine come abbia fatto, con quale metodo astruso, ma decido di tenere per me l'inesistente segreto, con un alone di mistero che da mamma col neo mi fa sentire per qualche secondo una mamma superfiga. Poi ricordo a me stessa che ero all'ottavo tentativo, due mesi e due impegnative. E torno umile. 
Ma il sorriso è rimasto.